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    BARAZZUTTI


    “The Little Soldier” – Il soldatino – Con questo nomignolo il grande Corrado Barazzutti era conosciuto su tutti i courts degli Stati Uniti e Corrado, in effetti, del soldato aveva la ferrea determinazione e la vocazione alla lotta. “Barracuda” era un altro suo soprannome, perché quando azzannava l’avversario non lo mollava più. Vidi Corrado la prima volta nel ‘78 in occasione della Coppa Davis e subito mi piacquero la sua grinta, la sua volontà di vittoria ed il suo gioco che, secondo il mio punto di vista, denotava una buona classe incorniciata da una modestia caratteriale non certo comune in campioni di questa grandezza.

    Barazzutti, in quel periodo, era all’apice di una carriera costruita con tanto lavoro e dedizione; l’anno precedente aveva coronato una sequela di ottimi piazzamenti nei tornei con la semifinale agli US Open e già da alcuni anni utilizzava, per tirare i suoi micidiali passanti, la fida “Challenge n.1” della Slazenger. La “Challenge” era la racchetta che più rappresentava, con la sua bellezza classica, lo stile british della casa. Prima del nostro “soldatino”, la bella inglese era stata impugnata dal fior fiore dei campioni: dai mitici australiani degli anni ‘60 ai grandi di Spagna, i due Manuel: Santana e Orantes, ad un giovanissimo Borg. Barazzutti riuscì con la fascinosa inglese ad inanellare un’altra prestigiosa semifinale al Roland Garros di Parigi e chiuse quella fortunatissima parte della sua carriera con la finalissima di Coppa Davis a San Francisco contro l’imbattibile team U.S.A. composto da Mc Enroe, Gerulaitis e dai senatori Smith e Lutz nel doppio.

    Il 1980 vide “Sbarazzatutti” ancora protagonista e punto di forza della nostra squadra azzurra; impugnava quella che sarebbe stata la breve genesi della “Challenge n.1”: la “Challenge Graphite”. Questo nuovo modello, che si richiamava vagamente all’illustre predecessore, aveva una forma slanciata e rettangolare del fusto, il quale era attraversato da una consistente lamina di fibra di carbonio; le due facce del telaio erano rivestite da una maglia di fibra di vetro fino all’altezza delle spalle; la testa, inoltre, era rinforzata da un sottile strato di carbonio. Corrado ci giocò sino allo scadere del suo contratto di sponsorizzazione con la casa inglese: la finale di Davis contro la Cecoslovacchia nell’80 ne fu l’epilogo; precedentemente, a settembre, riuscì a conquistare un’altra finale (poi persa) contro sua maestà Björn Borg, nel torneo di Palermo.

    Un 1981 avaro di successi salutò il suo passaggio alla Maxima; il tennista friulano era sceso oltre il centesimo posto della graduatoria mondiale, ma il nuovo attrezzo e l’impegno preso con la gloriosa casa italiana, gli davano lo stimolo, come risultò da un’intervista pubblicitaria del tempo, a risalire nei ranghi che più gli competevano. La “Torneo Barazzutti”, racchetta creata apposta per il nostro campione, era un bell’attrezzo, massiccio e robusto, rinforzato in carbonio come i crismi del tempo richiedevano, dotato di un’estetica di bellezza semplice e pulita. Corrado ci conquistò il suo sesto titolo ai campionati assoluti, unico fiore all’occhiello di quella stagione che segnò il suo autunno tennistico.

    Oramai anche i classici telai in legno stavano segnando il passo, nuovi materiali e nuovi formati facevano capolino all’orizzonte. Barazzutti, lottatore tenace, sebbene intimamente consapevole che la sua carriera stesse volgendo al crepuscolo, si equipaggiò di moderni attrezzi (lasciò la Maxima standard per il più ampio “Torneo Over-size”) e, forte di un fisico ormai trentenne ma perfettamente integro nonostante le centinaia di chilometri macinati in estenuanti battaglie, era ben deciso a non mollare. Il 1983, se da una parte segnò la fine della nostra squadra di Coppa Davis e, sicuramente, del periodo d’oro del tennis azzurro (Panatta e Bertolucci, ormai logori, scelsero di ritirarsi dopo l’incontro Italia-Argentina al Foro Italico in luglio, mentre Zugarelli con la sua consueta discrezione se n’era andato tempo prima), per Barazzutti rappresentò la conquista del suo “canto del cigno”: ciò avvenne nella settimana di Pasqua nel prestigioso torneo di Montecarlo; nei quarti di finale il nostro soldatino affrontò con caparbia determinazione un Guillermo Vilas ancora fortissimo sulla terra battuta e nei top ten della classifica mondiale: ben deciso a conquistare il trono di Montecarlo, il tennista argentino cominciò a sparare diritti e rovesci a tutto braccio, carichi di forza e di spin, a destra e a manca; Corrado da prima contenne ed al momento opportuno affondò, colpendo al cuore con continue stilettate, il “Poeta della Pampa”. Fu un grande risultato: Vilas lasciò il campo furente. Il giovane erede di Borg, Mats Wilander, di undici anni più giovane, lo aspettava di lì a poche ore per disputare la semifinale; il tennista svedese, insieme al biondo statunitense Mel Purcell, si erano qualificati il giorno precedente, mentre Barazzutti e il più anziano Manuel Orantes (al termine di una lunga carriera) erano stati costretti dalla pioggia a dover disputare i quarti il giorno stesso delle semifinali. Orantes rinunciò a scendere in campo (al tempo aveva trentaquattro anni e non doveva dimostrare più niente a nessuno), mentre il nostro soldatino, seppur stanco, non rinunciò a disputare un’onesta partita.

    Coronato dal settimo titolo italiano assoluto (quando i campionati erano veramente di “serie A”), a spese del rampante Panattino (Claudio, nell’82), e confortato dall’ottimo risultato al torneo monegasco, Corrado poteva guardare al futuro con una certa serenità, contando in altre quattro o cinque stagioni di attività; ma il destino, o chi per lui, aveva scelto altrimenti. Passato all’americana Browning come sponsor tecnico, Corrado fu costretto, per esigenze contrattuali, ad utilizzare il modello “BT 400”: questo mid-size, costruito con una particolare lega di metallo con struttura molecolare “a nido d’ape”, si rivelò talmente inadatto per il suo braccio, da causargli il famigerato “tennis elbow”. Aveva contribuito probabilmente ad acuire tale malanno il logoramento dovuto ad una carriera molto impegnativa sia sul lato fisico che mentale.

    Corrado si trascinerà con questo doloroso compagno fino alla fine dell’inverno 1984 quando, con quella determinazione e quella forza che l’hanno sempre contraddistinto, otterrà la sua ultima importante vittoria in una “Davis” che l’aveva elevato a paladino e salvatore della squadra azzurra. I suoi antichi compagni avevano lasciato il posto ad Ocleppo, Claudio Panatta e “Simba” Colombo, quando Barazzutti, ultimo superstite di quella squadra inarrivabile, ribaltò la situazione dell’Italia, in svantaggio di 2 a 1 nella terza e decisiva giornata contro l’Inghilterra (fuori casa e su una superficie a lui poco congeniale), e permise a Gianni Ocleppo di conquistare il terzo e decisivo punto per la vittoria finale. La sua fu una prestazione superba e, come detto, l’ultima. Pochi mesi dopo, a causa di un’intossicazione alimentare che gli provocherà l’Epatite “A”, sarà costretto, in un torneo negli Stati Uniti, a ritirarsi e, successivamente, a lasciare a malincuore (ma solo come giocatore) quel mondo che aveva tanto amato e che sempre amerà.



    Barazzutti

     
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