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    PECCI


    UN INDIO DI NOME VICTOR. Probabilmente il bel Victor, che fa Pecci di cognome, nativo del Paraguay (a quel tempo non solo tennisticamente molto povero), sarebbe stato nei suoi quindici anni circa di carriera tuttalpiù un onesto comprimario, se in quel lontano giugno 1979 la sua stella, incendiandosi improvvisamente, non lo avesse elevato al rango di protagonista del jet-tennis, se non proprio di immortale della racchetta. Un metro e novantatre di fisico statuario, carnagione olivastra, chioma nerissima e fluente, sguardo profondo e languido da nobile indio sudamericano, orecchino di diamante al lobo destro (“lo portano quelli che amano viaggiare” aveva confidato una volta ad un giornalista), il prestante Victor, fasciato nel suo completino bianco ed azzurro della Fila che metteva ancor più in mostra la sua fisicità, divenne ben presto l’idolo delle ragazzine che frequentavano fin dai primi giorni il torneo del Bois de Boulogne. Precedentemente a quegli “Internazionali di Francia”, il tennista paraguaiano dal rovescio in back un po’ incerto colpito con la sua Fischer metallica nera denominata “Team”, aveva razzolato ben poco nel suo lungo pellegrinare intorno al mondo, ad eccezione del successo colto a primavera a Nizza. Tennista dal gioco aggressivo, contrariamente agli insegnamenti della scuola sudamericana, preferiva il tennis d’attacco con frequenti incursioni a rete che riusciva egregiamente a “coprire” grazie alla lunghezza delle sue leve e ad una naturale predisposizione per il gioco al volo, soprattutto nella volée di rovescio che giocava con un leggero taglio in back. Discretamente rapido negli spostamenti in avanti, lo era di meno in quelli laterali (come un po’ tutti gli atleti di alta statura), di conseguenza il gioco da fondo campo non si confaceva alle sue ambizioni; servizio e smash erano all’altezza della situazione. Fedele compagna nelle sue cavalcate verso la rete (il giocare i vari colpi con la lingua di fuori lo faceva assomigliare ad un cavallo selvaggio), come detto prima, era la Fischer “Team”. Costituita in lega di “perradur”, la “Team” si presentava come racchetta molto grintosa: completamente di colore nero, l’ovale tondeggiante, aveva il cuore in fibra, anch’esso nero, su cui risaltava la marca di colore bianco. L’impatto sulla palla era piuttosto sordo, inoltre Pecci la personalizzava applicandole dei pezzetti di piombo autoadesivo sulla testa, allo scopo di migliorarne la potenza nei colpi al volo. Ma ritorniamo a quell’estate del ‘79, quando il tennista di Asunciòn colse il suo momento magico: superati i primi due turni con relativa facilità, ebbe in sorte al terzo “Barracuda” Barazzutti, che appena pochi mesi prima aveva chiuso la stagione nei “Top 10” del ranking mondiale; riuscì a superarlo in tre sets, come pure fece successivamente contro Solomon e nei quarti contro Vilas, vale a dire il gotha del tennis su terra battuta. Rifilò tre sets a uno a Connors in semifinale e si presentò in finale a sua maestà Borg con la stampa ed il pubblico francese oramai in delirio per lui. Se a quei tempi affrontare Borg equivaleva a contrastare un carro armato con un lecca-lecca, Victor riuscì a salvare l’onore sottraendo il terzo set al tie-break all’inscalfibile orso. Si godette da fresco sposo il suo momento di gloria, la Fila gli dedicò una racchetta che probabilmente non utilizzò mai e riuscì di lì a poco a centrare un altro buon risultato, la semifinale al Foro Italico (che perse contro Clerc), per poi ripiombare nell’anonimato. Storia finita? No! Ritroviamo l’indio dagli incisivi sporgenti affrontare gli anni ‘80 come doppista di successo insieme al connazionale Francisco Gonzalez: cambiano i tempi e cambia racchetta, passando prima al mid-size in metallo Alto “Turbo Professional” dalla caratteristica testa pentagonale e, successivamente, alla Pro Kennex “Boron Ace”, mid-size in graphite e boron (il primo in assoluto che montava il bumper protettivo in plastica sul bordo superiore dell’ovale). Continuò la sua carriera dedicandosi esclusivamente alla Davis, difendendo con tenacia e successo i colori del suo povero ma fiero paese.



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